Dal sito di Note di Pastorale Giovanile, pubblichiamo un articolo dalla rubrica “Il viandante di Samaria”, a cura di Massimo Maffioletti.
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La parabola come provocazione
Gesù amava molto il genere letterario delle parabole che ha certamente ereditato dalla tradizione ebraica del popolo di Israele [34]: «Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa» (Marco 4,33-34). Ne racconta molte, il maestro. Ne racconta ben 42. Una diversa dall’altra [35].
È la sua cifra narratologica: Gesù ha inteso offrire il cuore del suo messaggio (l’annuncio del regno dei cieli o di Dio) non con discorsi teologici ma attraverso semplici racconti attinti dalla vita quotidiana: nelle parabole si parla di semina e di campi, di lago e di pesca, di padri e di madri e, ovviamente, di fratelli… Nessuna accademia, solo vita vera, come si dice. Per esempio, la nostra parabola quasi certamente fa riferimento a un episodio accaduto per davvero. Un fatto di cronaca nera, per la precisione. Gesù ha fatto delle parabole il genere narrativo con cui ha voluto indirizzarsi alle persone semplici, comuni, annunciando loro che il regno di suo padre era come quello raccontato dalle parabole. È importante questo come. È soprattutto attraverso le parabole che Gesù ha «evangelizzato » Dio, cioè ha reso Dio «buona notizia» per l’uomo [36]. È stato il «narratore di Dio» [37].
Gesù non parla ex-cathedra, con un tono professorale, erudito, colto.
Il Maestro preferisce il genere discorsivo parabolico: parabola vuol dire «parlare accanto» (dal greco para-ballo), parlare vicino, parlare nella prossimità, «facendosi prossimi» alla comune umanità che ci affratella. Il genere letterario della parabola è già un modo concreto di farsi prossimi. Gesù lo è già a partire dal linguaggio, dalla parola. Gesù è l’uomo che con parole e azioni lascia intuire che Dio si fa prossimo a noi: «Farsi narratore è una forma del farsi prossimo, dell’avvicinarsi a chi si trova nel dolore e nella sofferenza» [38].
Ed è per questo che siamo invitati ad essere prossimi come Lui [39].
Appunto: «Va’ e anche tu fa’ così». Dio è prossimo dell’uomo come il samaritano è prossimo del malcapitato.
Le parabole non sono semplici allegorie [40]; sono racconti aperti [41], dove il finale è tutto da scrivere ma soprattutto è affidato all’interpretazione del lettore. Gesù non chiude mai le parabole svelando subito il senso/significato, perché il significato non è mai unico e univoco: dipende… Le affida a chi le ascolta: «Ridurre le parabole a un unico significato distrugge il loro potenziale estetico e morale» [42]. «Le parabole rimangono aperte perché l’interpretazione avverrà ad ogni lettura» [43]. Una volta raccontate le parabole dipendono dagli uditori.
Sono loro a decidere l’esito. La conclusione è sempre un invito a fare, ad essere, l’esito non è una conoscenza da mandare a memoria ma un atteggiamento da assumere. Una postura di vita: «Fa’ questo e vivrai». «Va’, e anche tu fa’ lo stesso». La parabola non porta alla conoscenza di cose, coinvolge la libertà in un’azione: fa’… Chi sostiene che Gesù raccontasse le parabole per farsi capire meglio dalla gente comune forse non è sulla strada giusta. Nemmeno credere di averle comprese ci mette sulla strada giusta. In realtà le parabole sono difficili, per nulla immediate. Nemmeno i suoi amici più vicini le comprendono sempre («Non capite questa parabola, e come potete comprendere tutte le parabole?» [Marco 4,13]). È un genere letterario particolare, complesso, a volte enigmatico: «Ciò che rende le parabole misteriose, o difficili, è il fatto che ci sfidano a esaminare gli aspetti nascosti dei nostri valori e delle nostre stesse vite. Esse portano in superficie domande inespresse e rivelano risposte che abbiamo sempre saputo, ma che abbiamo rifiutato di riconoscere. Di fronte alle parabole, la nostra reazione dovrebbe essere più di resistenza che di accettazione. Per noi sarebbe più comodo precluderci il significato anziché permettere alla parabola di aprirsi a interpretazioni molteplici. Probabilmente ci sentiamo più a nostro agio a professare un credo che a intraprendere un dialogo o rispondere a una chiamata» [44]. Le parabole sono sfidanti. Pensiamo alla nostra. Gesù alla domanda del dottore della Legge – «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» – risponde con una contro-domanda: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Poi, come se non bastasse, all’incalzare dell’uomo religioso – «E chi è mio prossimo?» – il maestro preferisce non rispondere scegliendo di raccontare una storia. Alla fine è ancora lui, Gesù, a fare l’ultima domanda: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?» E, a questo punto, il dottore della Legge, più che al maestro, si vede quasi costretto a rispondere a se stesso. Gesù lo pone davanti a un’evidenza della vita dalla quale non può scappare.
L’interlocutore è all’angolo – e ci si è messo da solo; pensando di voler “incastrare” il maestro si è incastrato da solo – e non può che assentire all’evidenza dell’esito: «Va’ e anche tu fa lo stesso!». Fine.
Le parabole Gesù non le racconta per consolare ma per provocare la risposta: più che consolare chi è afflitto, affligge chi è consolato.
Stana dalla comfort zone. Le parabole smuovono chi si trova in una posizione troppo comoda o chi crede di voler insegnare. «Il fine delle parabole e di chi le raccontava era incitarli (gli ascoltatori, ndr) a guardare il mondo in maniera diversa, provocarli e talvolta accusarli» [45] (come forse accade nella nostra parabola?). «Forse faremmo meglio a pensare non tanto a quello che le parabole “significano”, quanto piuttosto a quello che possono “fare”: ricordare, provocare, affinare, confrontare, turbare…» [46]. Le parabole “confondono” [47].
Inutile, poi, cercare «principi morali universali da un genere (quello parabolico, ndr) che è fatto per sorprendere, provocare, scuotere» e se «cerchiamo un unico significato in una forma che prevede molteplici interpretazioni, stiamo necessariamente limitando le parabole e, di conseguenza, noi stessi» [48].
Le parabole di Gesù hanno un che di ironico e persino di assurdo, paradossale: il loro racconto è destinato a demitizzare i pregiudizi assunti, svuotarli dal di dentro, per costringere a intraprendere strade inedite. Relativizzare ciò che si ritiene religiosamente o socialmente assoluto e responsabilizzare chi vorrebbe limitarsi alla sola pratica rituale. Le parabole incoraggiano a vivere e a vedere la vita con occhi nuovi. Ci fanno fare un bel salto nel vuoto. Per questo vanno prese con le pinze e con il dovuto rispetto. Indubbiamente sono radicali e non concedono nulla ai luoghi comuni. Insomma, si è capito, le parabole sono un sovvertimento del pensiero, della maniera comune di vedere le cose e la vita. Le parabole non hanno nulla da spartire con un ricettario di buone regole morali o con chissà quale dottrina. Leggerle in questa prospettiva è fuorviante. Soprattutto se si pensa che Gesù raccontava storie per destabilizzare l’uditore che si riteneva orgogliosamente conforme all’abito religioso che indossava. Come se volesse tendergli una trappola. Un sottile geniale espediente dialogico.
Ci riusciva, eccome se ci riusciva. La nostra parabola è un esempio perfetto: l’interlocutore non si accorge che il Maestro l’ha condotto piano piano ad ammettere quello che lui non si sarebbe mai sognato di ammettere. E, cioè, che l’uomo religioso – sì, soprattutto lui – deve stare dove non vorrebbe o dove non sceglierebbe mai di stare: accanto all’altro per farsi suo prossimo.
A proposito: «Non è necessario credere in Gesù, Signore e Salvatore, per comprendere quante cose straordinarie avesse da dire. Se anch’io riesco a trovare tanta genialità nelle sue parabole, tanto più le persone che lo venerano dovrebbero essere in grado di ascoltarlo con orecchie più fini» [49].
Infine, le parabole sono soprattutto una «medicina narrativa», un esercizio, esse stesse, di autentica «com-passione»50.
NOTE
34 È emblematica quella degli alberi chiamati a eleggere il loro re tra dinieghi e l’accettazione inaspettata del rovo. La parabola è narrata nel libro dei Giudici (9,8-15): «Si misero in cammino gli alberi per ungere un re su di essi. Dissero all’ulivo: “Regna su di noi”. Rispose loro l’ulivo: “Rinuncerò al mio olio, grazie al quale si onorano dèi e uomini, e andrò a librarmi sugli alberi?”. Dissero gli alberi al fico: “Vieni tu, regna su di noi”. Rispose loro il fico: “Rinuncerò alla mia dolcezza e al mio frutto squisito, e andrò a librarmi sugli alberi?”. Dissero gli alberi alla vite: “Vieni tu, regna su di noi”. Rispose loro la vite: “Rinuncerò al mio mosto, che allieta dèi e uomini, e andrò a librarmi sugli alberi?”. Dissero tutti gli alberi al rovo: “Vieni tu, regna su di noi”. Rispose il rovo agli alberi: “Se davvero mi ungete re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra; se no, esca un fuoco dal rovo e divori i cedri del Libano”».
35 Sono distribuite nei quattro vangeli e Luca è l’evangelista che ne riporta il maggior numero. «Non si è riflettuto a fondo, dibattuto, scritto su che cosa, detto diversamente, potesse significare il fatto che delle 42 parabole riportate complessivamente dai quattro vangeli canonici solo 5, il 12 per cento, una ogni 8-9 parabole, sono parabole comuni a tutti i vangeli (quella del seminatore, dei vignaioli omicidi, del granello di senape, della toppa sul vestito e del vino nuovo, dell’uomo forte). […] Non si è riflettuto abbastanza sul fatto che Gesù non voleva ripetersi. E non voleva perché sapeva di avere davanti a sé, specialmente dopo un po’ (qualche mese) che predicava e insegnava, gente che in buona parte era sempre la stessa» (R. Volpi, In quel tempo. Da Gesù a Paolo attraverso i numeri del Nuovo Testamento, ed. Solferino 2023, pp. 134-135).
36 La suggestiva espressione non va certo intesa nel senso che Dio debba essere evangelizzato; ciò che va evangelizzato è «la maniera con cui noi parliamo di lui e con cui utilizziamo il suo Nome». «Gesù è colui che arriva quando Dio parla senza ostacoli in un uomo» (R. Luneau, Jésus, l’homme qui évangélisa Dieu, ed. Albin Michel 2009, p. 21).
37 L. Manicardi, Gesù, narratore di Dio, ed. Messaggero Padova 2015 (pp. 21-54).
38 L. Manicardi, La passione per l’umano, VeP 2023 (p. 96).
39 «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (Levitico 19,2), «voi siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Matteo 5,48), «siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Luca 6,36).
40 A.-J. Levine, Le parabole di Gesù. I racconti enigmatici di un rabbi controverso, ed. Effatà 2020 (p. 29): «Non c’è una corrispondenza diretta tra gli elementi di una parabola e quelli del mondo esterno. Talvolta (in una parabola, ndr) un pastore è semplicemente un pastore e non l’immagine di Dio; un re può essere anche solo un re; un proprietario terriero qualcuno in cerca di operai; e una pecora smarrita non è vista immediatamente come un peccatore, pentito o incallito. […] Gli uomini del I secolo che ascoltavano Gesù non avrebbero pensato, come hanno fatto alcuni interpreti cristiani successivi, che il buon samaritano che soccorre l’uomo ferito dai banditi è Gesù che ci salva dalla morte, o che il figliol prodigo è Gesù che lascia la sua casa per vivere in un mondo peccaminoso e poi torna da Dio Padre».
41 In obbedienza alla teoria letteraria dell’opera aperta di Umberto Eco.
42 A.-J. Levine, Le parabole di Gesù. I racconti enigmatici di un rabbi controverso, ed. Effatà 2020 (p. 9).
43 Ibid., p. 18.
44 Ibid., pp. 11-12.
45 Ibid., p. 12.
46 Ibid., p. 13.
47 Le parabole confondono come Dio volutamente confonde gli abitanti che stanno costruendo la Torre di Babele in cerca di un’unica lingua con l’obiettivo di non disperdersi (Genesi 11,1-9). Non ti aspetteresti un Dio che gioca a confondere.
Ma per l’uomo religioso della nostra parabola che pretende granitiche risposte, la sovversione evangelica è una benedizione. Per inciso: Babele si rivela una promessa. La fraternità è sempre accogliere le differenze, ospitare l’estraneo, l’incognito, lo straniero, l’inedito. L’altro (Altro). Dio confonde non per annoiato divertissement o per capriccio umorale, ma per rompere il presunto ordine della hybris umana. Umano sarebbe abitare la complessità non scioglierla in banali sogni di esclusione o fusione ancestrale. Nelle parabole Gesù si serve dello stesso dispositivo narrativo di Genesi per annunciare la promessa che non ti aspetteresti: la risposta è la prossimità, farsi prossimi.
48 Ibid., p. 12.
49 Ibid., p. 37.
50 È bellissimo il capitolo sulla narrazione di L. Manicardi, La passione per l’umano, VeP 2023 (in particolare pp. 80-110).