LETTERATURA
All’ombra di Proust
Luigi Preziosi

Il tema del senso del tempo nella narrativa è evidentemente immenso. Qui, ne scandaglieremo, molto sinteticamente per motivi di spazio, alcuni aspetti minimi, spiluccando qua e là, all’ombra di Proust, tra qualche classico accertato e qualche contemporaneo in piena attività creativa. La scelta è quasi casuale…

1. Un capostipite. In principio c’è Proust

Destruttura (ma non solo lui) il concetto di linearità del tempo, ne valorizza l’aspetto di esperienza interiore, non sempre e non necessariamente consapevole. E così, intorno al problema di trovare un senso al tempo, inizia un significativo segmento del Novecento letterario.
Oltre che con il tempo “volontario”, ordinariamente percepito in modo cosciente e quindi lineare, l’esperienza degli autori e dei lettori si arricchisce per lui di un tempo “involontario”, che si palesa indipendentemente dalla partecipazione della coscienza di chi agisce nella narrazione. Un tempo, quindi, che può essere evocato da una memoria altrettanto “involontaria”: “Il tempo volontario non è il vero tempo del ricordo. Il vero tempo è quello che si impone senza volerlo, come una musica, un odore o un sapore.”. Il tempo non è solo un elemento “accidentale” della narrazione, ma in certi contesti narrativi può essere sostanza, capace di incidere sulla condizione umana dei protagonisti. In particolare, la memoria involontaria supera i limiti cronologici e consente un ritorno in piena intensità al passato in cui il ricordo si è formato.
Inevitabile quanto ovvio il ritorno alla madeleine.

…. un giorno d’inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati Petites Madeleines, che sembrano modellati nella valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un triste domani, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè dove avevo lasciato ammorbidire un pezzetto di madeleine. Ma, nello stesso istante in cui quel sorso frammisto alle briciole del dolce toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. Di colpo, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, allo stesso modo in cui agisce l’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, questa essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde mi era potuta venire questa gioia potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla? /…/
E, all’improvviso, il ricordo mi è apparso. Quel sapore era lo stesso del pezzetto di madeleine che, la domenica mattina, a Combray (perché quel giorno non uscivo prima dell’ora della messa), quando andavo a darle il buongiorno nella sua camera, la zia Léonie mi offriva, dopo averlo immerso nel suo infuso di tè o di tiglio. /…/ Ma quando di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo. E appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di madeleine, inzuppato nel tiglio, che mi dava la zia (benché non sapessi ancora, e dovessi rimandare a molto più tardi la scoperta del motivo per cui quel ricordo mi rendesse tanto felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, dove era la sua camera, si adattò, come uno scenario di teatro, al piccolo padiglione che dava sul giardino, costruito sul retro per i miei genitori (quel lato tronco che solo avevo rivisto fin allora); e con la casa, la città, da mattina a sera, e con qualsiasi tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove andavo a far delle compere, i sentieri in cui ci si inoltrava se il tempo era bello. (pp. 51-52)

2. Un paio di classici, fra i tanti

proustiano per finezza di analisi, per la cura dei dettagli che attivano il ricordo, per la conseguente capacità di approfondimento psicologico, nonché per l’attitudine a alla contemplazione del passato è certamente Giorgio Bassani, che dispiega queste sue inclinazioni innanzitutto (ma non solo) nel Giardino dei Finzi Contini:

“… Metterci a far l’amore noi due! Mi pareva davvero possibile?
Domandai perché le sembrasse tanto impossibile.
Per infinite ragioni – rispose – ma soprattutto perché il pensiero di far l’amore con me la sconcertava, la imbarazzava: tale quale come se avesse immaginato di farlo con un fratello, toh, con Alberto… Io le stavo “di fianco”, capivo?, non già “di fronte”, mentre l’amore (così almeno se lo figurava lei) era roba per gente decisa sopraffarsi a vicenda, uno sport crudele, feroce, ben più crudele e feroce del tennis!, da praticarsi senza esclusione di colpi e senza mai scomodare, per mitigarlo, bontà d’animo e onestà di propositi[…] Stupidamente onesti entrambi, uguali in tutto e per tutto come due gocce d’acqua (“e gli uguali non si combattono, credi a me!”) avremmo mai potuto sopraffarci l’un l’altro, noi, desiderare davvero di sbranarci? No per carità. Visto come il buon Dio ci aveva fabbricati, la faccenda non sarebbe stata augurabile né possibile […] anch’io, come lei, non disponevo del gusto istintivo delle cose che caratterizza la gente normale. Lo intuiva benissimo: per me, non meno che per lei, più del presente contava il passato, più del possesso il ricordarmene. Di fronte alla memoria, ogni possesso non può apparire che delusivo, banale insufficiente…Come mi capiva! La mia ansia che il presente diventasse “subito” passato perché potessi amarlo e vagheggiarlo a mio agio era anche sua, tale e quale. Era il “nostro “ vizio, questo: d’andare avanti con le teste sempre voltate all’indietro. Non era così? (pp. 180-182)

La memoria che supera il possesso, il culto quasi morboso del passato: eppure, nonostante apparenti vicinanze (per entrambi, in sintesi estrema, la memoria è fondamentale materia di narrazione), il senso del tempo di Bassani non è il senso del tempo di Proust.
Lo stesso Bassani, crocianamente storicista, avanza serie riserve sul suo rapporto con l’autore della Rècherche: “… niente “ricerca del tempo perduto”: il tempo non è mai perduto, è il mio tempo; la ricerca è solo un tentativo di andare indietro nel tempo per spiegare il me stesso di adesso, ma senza dimenticarlo. È questo il punto fondamentale. A differenza di Proust chiuso nella sua camera e tutto abbandonato al recupero del se stesso di una volta, io tento un accordo, un raccordo tra il me stesso d’una volta e il me stesso d’adesso”. Ed altrove (Camon, p. 138), con ancora maggiore chiarezza: “… Proust è passivo, accoglie tutto della vita: io sono invece un moralista, scelgo e scarto. Proust è un grande esteta, io non sono un esteta”.
Zeno Cosini, il protagonista di La coscienza di Zeno di Italo Svevo, contempla il passato attraverso la redazione di un diario, cuore della cura psicanalitica a cui si sta sottoponendo.
Il suo non è un tempo lineare.
È piuttosto un flusso connesso alle emozioni che di volta in volta suscitano i ricordi, utilizzati a scopo terapeutico, ma che finiscono per essere l’altra misura non cronologica del tempo per il protagonista. Il tempo viene rappresentato con l’accostamento di frammenti cronologicamente discontinui, contribuendo in maniera decisiva alla creazione di una realtà soggettiva, non sempre congruente con il mondo di relazioni del protagonista, nella quale Zeno può crogiolarsi. L’ininterrotto pendolare della narrazione tra passato e presente (e anche al futuro, come nel finale “profetico”), è già in nuce avvertibile nel prologo, in cui Zeno ritorna al suo primo ricordo cosciente di bambino contemplando il figlio neonato di sua cognata:

Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la tua culla. Nel tuo seno – fantolino! – si va facendo una combinazione misteriosa. Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri. Eppoi – fantolino! – sei consanguineo di persone ch’io conosco. I minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono.
Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani. (p. 5)

Alcuni segnali che prefigurano il senso del tempo che presiede alla narrazione successiva si intravedono fin da questo preambolo. In particolare, il tempo come malattia dell’anima, con l’accenno alle “troppe probabilità di malattia” con i minuti che “non possono essere tutti puri”, considerazioni che, applicate a se stesso, inducono Zeno all’inettitudine, vivendo una sorta di rifiuto del tempo presente, e coltivando fantasticazioni sul futuro o rimpianti sul passato.

3. Un paio di contemporanei, a caso, ma nemmeno poi tanto…

Anche in Il collezionista di tempo di Marino Magliani, il tempo è un insieme di frammenti, allineati senza successione cronologica, piuttosto seguendo impulsi del tutto soggettivi. I momenti principali del racconto sono l’infanzia che il protagonista Gregorio Sanderi trascorre in collegio, il periodo successivo al servizio militare e gli anni vissuti in Olanda. Ma il tempo di Gregorio è molto più complesso: ci sono voci misteriose che si fanno sentire fin dall’infanzia, ed una corrispondenza via email con un alter ego che vive nel 2065 …
La dimensione temporale del romanzo si amplifica in proporzioni inusitate: la non linearità del tempo non riguarda soltanto il singolo, ma un universo in cui passato, presente e futuro si possono reciprocamente influenzare, e dunque il destino di ognuno (ed anche quello collettivo) dipende dalle azioni del passato. La frammentazione del tempo allude dunque ad una sua circolarità: non necessariamente e non sempre avanza, è più facile pensarlo come un continuo riaffacciarsi di luoghi, atti ed emozioni.

Non aveva parlato granché coi frati, ma dopo il pranzo, come se gli spettasse di diritto, senza che lo avesse chiesto, lo invitarono a cercare i posti giusti dove aveva collezionato il tempo.
Aveva respirato l’asfalto dei cortili e il buio del lunghi corridoi, e mentre aveva alzato gli occhi agli affreschi dei soffitti che conducevano alla chiesetta, e agli affreschi che continuavano la chiesetta e riprendevano nelle classi e portavano ai corridoi e tornavano alla chiesa, mentre aveva respirato tutta l’aria che possedeva quel posto, Gregorio s’era accorto che stava pregando e che in questi trenta anni non aveva mai fatto altro. /…/ Nei cortili e in quel buio aveva cercato il bambino che era stato, l’aveva chiamato a voce alta, l’avrebbe voluto prendere per mano e portarlo via.
Gregorio, che fai ancora qui, gli aveva detto, vieni, non c’è più nessuno, sono andati tutti via…E gli pareva di esserci riuscito gli era parso di stringergli la mano e d’essere lì lì per portarselo via, ma dalla parti del cancello il bambino aveva dato uno strattone ed era tornato nei cortili … Per tanto tempo Gregorio la notte aveva risentito quella mano staccarsi per sempre… (p. 119)

In Anatomia della battaglia Giacomo Sartori racconta un problematico rapporto tra un figlio ed un padre che si avvicina alla morte. Il tempo rappresenta anzitutto una irriducibile cesura tra i due, figli come sono di due epoche ben più lontane di quanto dica il numero di anni di distanza: il padre continua fino alla morte ad essere come il fascismo della sua giovinezza gli aveva insegnato, il figlio, per reazione, per non assomigliargli o perché si sente poco apprezzato dal padre, militante dell’estrema sinistra fin da ragazzo ha che fare con il terrorismo rosso degli anni settanta. Non conta tanto la contrapposizione ideologica tra i due, né la tesi implicita che gli errori ideologici di entrambi si ribaltano con esiti drammatici sul piano delle relazioni più intime, quanto l’idea che le esperienze opposte si richiamano, si avvicinano, impedendo quell’elaborazione interiore sul fluire del tempo, che riesca a rendere il passato davvero “passato”. D’altro lato, il tempo come memoria storica, individuale e collettiva in egual misura, sembra consentire continuità a certe categorie della politica (fascismo, marxismo) che superano le contingenze storiche in cui sono manifestate. Ancora, per questa sua persistenza, il tempo per Sartori non lenisce le ferite, quanto meno quelle più profonde, non del tutto. Così il romanzo non si dipana in ordine cronologico: in un continuo rinvio tra piani temporali, il passato continua a definire il presente, come nel capitolo in cui l’autore affianca con geometrica simmetria il pranzo per l’ultimo compleanno del padre morente al pranzo consumato in semi clandestinità vent’anni prima con un compagno terrorista.

Come sempre, Beppe mi chiede cosa sto leggendo in questo periodo, ma poi la discussione parte in varie direzioni, e finiamo per parlare di funghi e di piante medicinali. /…/ Conosco e amo questa sua maniera di ascoltare succhiando il sigaro, come soppesando ogni dettaglio, come se ogni singola parola avesse importanza: paradossalmente proprio con lui, che nella sua testa sottopone ogni riflessione al vaglio implacabile della correttezza ideologica e dell’analisi marxista, ho sempre potuto parlare di tutto. /…/ fa come se tutto andasse bene, ma hanno arrestato quasi tutti, compresa quella che era diventata la sua nuova compagna, smantellato gran parte delle loro basi, tagliato le fonti di finanziamento. Si vede che è provato, e che non ha più la sicurezza di prima: deve fare una vita ancora più dura, con una libertà di movimento ancora più ridotta…
La festa per i due compleanni si doveva fare, che lui avesse una metastasi che l’avrebbe presto ucciso o che non l’avesse. La sua implacabile etica travalicava i contingenti interessi della propria persona, dettava legge innanzitutto a se stesso: non importava nulla se un vecchio ormai molto mal messo stava morendo, non importava se quel vecchio era lui. Stavamo in realtà recitando per lui, per adattarci al suo tacito ma dispotico volere. Senza saperlo ci conformavamo ancora una volta al suo punto di vista fascista, come in fondo avevamo sempre fatto. La nostra era una celebrazione fascista, un perfetto rito nazifascista (p. 185).

Per concludere (molto sommariamente), un altro classico…

Il tempo interviene in letteratura in modi diversi. Ci sono alcuni autori che trattano il tempo come un problema: è proprio il tempo l’unico argomento dei loro romanzi. /…/Fanno parte di questa categoria un romanzo come La macchina del tempo di Herbert George Wells, il mio racconto Ti con zero, o ancora il romanzo I fiori blu di Raymond Queneau./…/
C’è poi chi rappresenta il tempo nel suo fluire, confuso, immenso. È il caso della Récherche di Marcel Proust. Il fascino più grande è nel fatto che nel romanzo, tutto, ogni singola azione, gravita naturalmente verso il finale, verso il ritrovamento del tempo come spinto da una corrente. È il libro che in assoluto si avvicina di più a rendere quella sensazione inesprimibile che è poi il modo con cui noi abitiamo il tempo.
In un terzo gruppo metterei chi affronta il tempo nella forma che dà alla narrazione. Joyce, per esempio, con il monologo interiore. O ancora Joseph Conrad con il continuo ribaltamento della prospettiva con cui è vista la realtà grazie all’intervento di narratori diversi, ognuno con un suo tempo, un suo spazio.
Chi meglio di Calvino, maestro nella specifica materia, può aiutarci, orientandoci nell’oceano delle diverse rappresentazioni del tempo, nonché dell’utilizzo del concetto di tempo, presenti nella narrativa dal Novecento ad oggi? In un’intervista dell’85 (in Panorama mese, pp. 71-74), di cui sopra si riportano alcuni stralci, offre una sintesi nitida del suo pensiero al riguardo, che affianca a quella di Proust altre concezioni del tempo che si sono formate e consolidate nel secolo scorso, e che sono tutt’ora pienamente vitali, come s’è visto, negli autori contemporanei.

Opere citate

– Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi Contini, Milano, Mondadori, 1976.
– Italo Calvino, Vivere ogni secondo per vincere il tragico divenire, intervista di Michele Neri, Panorama mese, IV, 1, gennaio 1985, pp. 71-74. Poi in: Italo Calvino, Sono nato in America… Interviste 1951-1985, a cura di Luca Baranelli, Introduzione di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 2012.
– Ferdinando Camon, Cosa ci insegna Bassani, in Giorgio Bassani, uno scrittore da ritrovare, p. 138.
– Marino Magliani, Il collezionista di tempo, Sironi editore, Milano, 2007.
– Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto – La strada di Swann, Einaudi, Torino, 1972.
– Giacomo Sartori, Anatomia della battaglia, Sironi, Milano, 2005 e Terrarossa edizioni, Bari, 2025.
– Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Mondadori, Milano, 1988.

MUSICA
Poco tempo e troppa fame
Salvatore Miscio

La colonna sonora di tanti italiani e di tanti giovani nell’estate 2025 recita che «Per tutta la vita/Nostalgia/Di quello che mi facevi» (Pronto come va, The Kolors). Il tempo sembra essere lo spazio del ricordo nostalgico dei momenti belli finiti assieme ad una storia d’amore, ad una bella relazione. La nostalgia è comunque buona per ballare e per animare le calde serate estive.
Con tale leggerezza anche Alfa (feat Manu Chao) fa risuonare nell’aria frasi del tipo: «Mi sono accorto ieri che il cielo parte dai piedi/Che le cose cambian forma in base a come le vedi» (A me mi piace). Questa canzone inizia proprio chiedendo al proprio cuore che ora sia. La risposta è che nel cuore si vive sempre una vita intensa. Il tempo è sempre vissuto bene se vissuto con intensità, tanto che si rinuncia volentieri anche a dormire se si è con la persona giusta («se dormi 8 ore al giorno sono 100 giorni in un anno/Ma fossi qui con me non dormiremmo così tanto»).
Annalisa con la canzone Maschio si chiede cosa succede la notte quando l’orologio comincia a correre e tutto sembra sfuggire, la poesia della sensualità lascia il tempo all’incolmabile differenza tra donne e uomini, tra i loro modi di vivere le relazioni e l’amore. È giunto il tempo di dimostrare l’inconsistenza di tanti luoghi comuni come l’amore cieco e il maschio che non piange, ma soprattutto di auspicare che l’uomo diventi capace di amare come farebbe una donna.
Achille Lauro canta il suo Amor alla città eterna, Roma, alla quale chiede di abbracciarlo come fosse l’ultima sera da poter passare assieme. È la certezza di poter contare sempre sulla propria città («per te che poi mi aspetti lo stesso/a te che trovi sempre un momento») che col suo abbraccio è l’unica cura possibile ad ogni mal di vivere.
Al contrario, Marco Mengoni preferisce fuggire dalla città, dove vede vite spente e ipocrite «a festeggiare di un futuro che sai/Cambia colore come cambiano i venti» (Sto bene al mare). Tuttavia anche al mare le cose non vanno meglio, tra i ricordi che affiorano e le vite che si sprecano nello specchiarsi. La canzone invita a resistere perché vale sempre la pena di esistere («Vali tutto il tempo ti prego resisti»).
Decide di vivere adesso Jovanotti che con la canzone Occhi a cuore dichiara che «Siamo qua, a un certo punto dell’eternità/Su una strada d’asfalto/chе va verso un salto nel buio/Che partorirà una stеlla danzante». Smette di rincorrere ciò che non ha senso o che non si può realizzare per vivere adesso, consapevolmente e con passione. Il passato è andato, del futuro non vi è certezza, ma del presente si sente responsabile: «Vivo adesso, l’ho promesso».
Fabri Fibra (feat Tredici Pietro) si chiede Che gusto c’è a rincorrere la vita che vogliono fare tutti, se poi gli altri stanno sempre meglio di te. Descrive le attese dell’italiano medio che si misura con il tenore di vita altrui e che rincorre luoghi comuni per sentirsi adattato, ma poi non si accorge del cielo stellato e della bellezza dell’Italia e del suo mare. È una fotografia culturale del nostro paese che si palesa soprattutto nel tempo delle vacanze.
Nonostante tutto, Cesare Cremonini (feat Elisa) canta un inno alla felicità: «Sai che a volte la felicità/Poi ti viene a cercare/Ti lascia un segno nell’anima/Che ti sembra l’estate/Corrile incontro, tu chiamala/Leggera senza una nuvola/Se arriva in fondo/A una pagina/Tu non la strappare» (Nonostante tutto).
I Pinguini Tattici Nucleari (feat Max Pezzali) con Bottiglie vuote regalano ancora una poesia ironica e romantica della vita: «Ti hanno legata al mondo per le caviglie/Ma nascondi i sogni nelle bottiglie». Il nostro tempo caratterizzato da un gelido disincanto è ancora buono per sognare e affidare tali sogni al futuro e ai posteri. Ognuno si organizza come può: «C’è chi cresce per noia/chi perché si cambia/In fondo tutti hanno una storia da non raccontare mai».
Ci sono anche coloro, come Fedez e Clara, che preferiscono essere realisti anche nelle relazioni. Con la canzone Scelte stupide invitano a togliere «i sentimenti in eccesso/Non mischiare amore col sesso». Ancora una volta emerge dalle canzoni tanto coraggio nel guardare in faccia la realtà senza verniciarla di buonismo, senza confonderla coi miti dello stile borghese, di gente sempre riuscita, che rincorre il benessere. Il disincanto accompagna la maggior parte della produzione musicale degli ultimi tempi. Sembra emergere la descrizione di un «tempo senza scelte» (libro di Paolo Di Paolo) dove le domande radicali restano ma non si è costretti a rispondere: si preferiscono i “forse” ai “sì o no”, e quando si sceglie qualcosa lo si fa al riparo di sicurezze già acquisite.
A guardare in profondità, secondo me, oltre ad essere un tempo senza scelte, ci sono soprattutto scelte senza tempo. Non si ha più il tempo di pensare, di fare discernimento perché tutto deve essere veloce e competitivo. Non si ha più il tempo di vivere le scelte fatte, perché bisogna cambiare sempre, aggiornarsi continuamente, passare al nuovo e ultimo prodotto.
Si è come l’assassino de Il Pescatore di Fabrizio De André, che confessa di avere «poco tempo e troppa fame». Sono tanti i bisogni, molti dei quali indotti dal mercato, ma non si ha il tempo per soddisfarli in maniera piena e costruttiva.
La compulsione del nostro tempo crea ansia e frustrazione. Anche questo emerge chiaramente dalle canzoni, che dinanzi a questo disincanto non scelgono di non cantare più ma di cantare in maniera nuova, invitando ad avere Niente Panico (Ghali) e fare la propria parte: «Se non lascio futuro, sono passato per niente/In quartiere sono assente, ma la mia anima è presente». Invitando ad avere fiducia nella vita e anche in Dio: «Niente panico/Chiudi gli occhi e tienimi la mano/Sorridi e respira piano/Miracoli/Come Dio che risponde al coraggio rimuovendo gli ostacoli». Ghali esorta alla fiducia nel futuro a partire dalla sua esperienza personale, convinto «Che la vita ti riserva dei regali che tu neanche ti immagini».
Le canzoni del nostro tempo si presentano meno positive nel raccontare la realtà, più taglienti e ironiche nel descrivere la vita quotidiana, ma emerge un incoraggiamento alla speranza, alla fiducia nella vita stessa: «Viva la vita così com’è/Viva la vita, questa vita che/È solo un attimo, un lungo attimo/Viva la vita finché ce n’è/Viva la vita, questa vita che/È solo un battito, un lungo battito» (Viva la vita, Gabbani).
Non si crede più alla favola di vivere come le star al Roxy bar, credendo che una Vita spericolata (Vasco Rossi) sia migliore di una più posata, ma sembra emergere una domanda di cura, di solidarietà, di incoraggiamento reciproco, come se ognuno potesse cantare all’altro: «Non so più quante notti ti ho aspettato/Per finire a ingoiare tutta la paura/Di rimanere sola/In questa stanza buia/Solo tu sei la cura per me» (La cura per me, Giorgia).

CINEMA
Ho paura del tempo
Eliana Vona

“Ma la storia cambierà”… chi non ricorda questa frase tratta dal film “Ritorno al futuro”, la famosa trilogia degli anni ’80: un viaggio nel passato e nel futuro in cui il protagonista Marthy, un giovane di 18 anni riesce ad aiutare la sua famiglia, migliorando la loro condizione di vita, grazie alla macchina del tempo inventata dallo stravagante dott. Brown soprannominato Doc. Marthy è in grado così di modificare gli eventi e di cambiarli offrendo nuove e migliori prospettive di vita per i suoi genitori e poi per suo figlio. Una dimensione temporale votata esclusivamente all’ottimismo, il segno di un’epoca, di un periodo storico in cui le nuove generazioni affrontavano la vita con positività, guardando appunto al futuro con speranza, convinti che la storia potesse cambiare davvero! In opposizione a questa immagine utopistica della società, in cui basta una macchina del tempo a rimettere a posto le cose, se ne contrappone un’altra ben diversa dove la paura, l’angoscia prendono il sopravvento ed il futuro diventa non momento di apertura, di fiducia verso una giusta ricomposizione dei fatti della vita ma incubo, sospetto, dubbio, inquietudine.
Ecco, allora, per rimanere negli anni ’80, “Blade Runner”, ambientato in una buia e cupa Los Angeles del 2019 su cui cade incessantemente una pioggia acida e nelle cui vie si aggirano alcuni replicanti ribelli, androidi del modello più evoluto, cui dà la caccia il detective Rick Deckard. Oltre ad una fotografia che ci mostra una Los Angeles quanto mai inquietante e distopica, il film si compone di sequenze e citazioni memorabili, come quella finale in cui si assiste alla morte di Roy, il capo dei replicanti, davanti allo sguardo impietrito di Deckard e credo nessuno può dimenticare le sue parole: “Io ne ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi “B” balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire”. Ma in un ultimo colpo di scena la sequenza conclusiva sembra insinuare il dubbio che perfino lo stesso Deckard possa essere un replicante dai ricordi innestati. Un futuro inquietante in cui androidi perfettamente costruiti possono essere confusi con esseri umani reali. “Ancora 24 ore di lavoro e nessuno, Joh Fredersen, nessuno potrà distinguere l’Uomo Macchina da un comune mortale… Vieni, è ora di dare il tuo volto all’Uomo Macchina!… È lo strumento più perfetto ed obbediente che un uomo abbia mai posseduto! Questa sera la vedrai far colpo sulla migliore società. La vedrai danzare e se anche solo una persona capirà che è un’automa, mi riterrò un dilettante che ha sbagliato tutto”.
Parole incredibilmente attuali che ci descrivono un futuro ormai diventato presente, che potrebbero essere pronunciate in un film girato recentemente, invece appaiono su una didascalia, sì perché sono tratte da un film muto, il capostipite del genere, “Metropolis”, il capolavoro di Fritz Lang del 1927: siamo nel 2026 in una città immaginaria dai contorni espressionisti. Il genio del regista austriaco già allora aveva previsto tutto, anticipando di gran lunga alcuni aspetti fondamentali del cinema distopico che saranno ampiamente sviluppati successivamente.
A partire dal grandissimo regista Stanley Kubrick in un altro capolavoro assoluto, “2001 Odissea nello spazio”, definito dalla critica “Un’opera grandiosa sul tempo, nel tempo”: il film girato nel 1966, è uscito nelle sale solo due anni più tardi, utilizzati dal regista per lo straordinario ed innovativo montaggio. Uno dei momenti centrali del film resta l’intervista realizzata da un giornalista della BBC direttamente ad Hal 9000, un computer di nuova generazione: “Hal, tu hai un’enorme responsabilità in questa missione. Tu sei il cervello e il sistema nervoso centrale dell’astronave e le tue responsabilità comprendono la sorveglianza degli uomini ibernati. Questo ti causa mai una certa apprensione?”. La risposta del computer ha dell’incredibile e ci riporta alla didascalia di “Metropolis”: “Possiamo dire questo, signor Amer: la serie 9000 è l’elaboratore più sicuro che sia mai stato creato. Nessun calcolatore 9000 ha mai commesso un errore o alterato un’informazione. Noi siamo, senza possibili eccezioni di sorta, a prova di errore e incapaci di sbagliare”. Ancora l’intervistatore della BBC ma rivolto questa volta al capitano dell’astronave, dott. Bowman. “Parlando con l’elaboratore si ha l’impressione che esso sia capace di… reazioni emotive… Lei crede che Hal abbia una genuina emotività?”. La risposta di Bowman “Beh, si comporta come se l’avesse…E’ stato programmato per rendere più facile parlare con lui ma, se abbia davvero una propria emotività, è una cosa che nessuno può dire con esattezza”. Il dilemma prevalente presente nei film menzionati, ma queste creature sono dotate di sensibilità? Nessuno ancora può dirlo… neanche Kubrick che nella celebre sequenza finale del finale ci annuncia che l’odissea dell’umanità è terminata ma sta per iniziarne una nuova…
Arriviamo così agli anni 2000, nei quali spicca sicuramente il nome di Cristopher Nolan, (non a caso fan di Stanley Kubrick) un regista che attraverso i suoi film ci ha raccontato gli incubi; le paure, le ossessioni, il disorientamento dell’essere umano al limite tra visione/sogno e realtà, tutto questo toccando diversi generi cinematografici: dalla trasposizione del fumetto “Batman”, attraverso la cosiddetta trilogia de “Il cavaliere oscuro” (2005-2012);ad “Inception” (2010), in cui il protagonista Dam Cobb è un ladro di sogni, infatti riesce ad entrare nei sogni degli altri per captarne i loro segreti; al genere della fantascienza con “Interstellar” (2014), in cui Nolan decide di misurarsi con il suo mito: siamo nel 2067, dopo una calamità naturale, un ex astronauta Cooper, si unisce ad una spedizione segreta organizzata dalla NASA per trovare nuove forme di vita. Nolan, tra l’altro utilizzando l’alta tecnologia come l’IMAX, riesce a costruire storie e narrazioni che si muovono tra piani temporali e spaziali diversi con una perfezione assoluta, facendo sì che lo spettatore rimanga incollato allo schermo perché nulla è scontato in lui e riesce ad offrire una concezione del futuro che vaga tra incertezze; dubbi; paure; sensazioni oniriche, rappresentando quanto di confuso e disorientato possa offrire il domani. Il professor Brand, uno dei personaggi del film “Interstellar”, in un momento fondamentale del film confesserà che: “Non ho paura della morte, sono un vecchio fisico, ho paura del tempo”. Ma, così come in “Metropolis” e in “2001 Odissea nello spazio”, anche in questo film si apre un barlume di speranza e, nella parte conclusiva, Amalia, la figlia del prof. Brand, si toglierà il casco e scoprirà che in quel pianeta è possibile la vita, pronunciando le famose parole “Forse l’amore è un artefatto di un’altra dimensione che non possiamo percepire consciamente… è l’unica cosa che possiamo percepire che trascende le dimensioni di tempo e di spazio. Forse di questo dovremmo fidarci anche se non riusciamo a capirlo ancora”.

 

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