Di don Rossano Sala

La quinta tappa del nostro percorso di riscoperta e valorizzazione dei dinamismi virtuosi e delle prospettive generative del Sinodo sui giovani[1], in connessione con il Dossier sulla comunità educativa e pastorale presente in questo numero di NPG, desidera affrontare il delicato rapporto tra strutture e relazioni. Tale coppia di termini si potrebbe leggere anche attraverso altri abbinamenti simili: istituzione e carisma, persone e ambienti, progetti teorici e comunità reali.
Sta di fatto che le tensioni generate in questo ambito di pensiero e di azione non sono semplici da mettere a fuoco teoricamente né facili da gestire nella pratica quotidiana: a volte abbiamo strutture che mortificano le relazioni, istituzioni che soffocano carismi, ambienti macchinosi che rischiano di spersonalizzarci, progetti che blindano e spengono le comunità. Si potrebbe anche correre il rischio opposto: cioè relazioni talmente indisciplinate che rovinano le strutture, carismi fuori controllo che distruggono le istituzioni, persone che svalutano gli ambienti e comunità che agiscono in forma disorganica e disordinata, creando gravi tensioni e profondi conflitti.

Una doverosa verifica

Quando il Sinodo sui giovani è entrato nel vivo del suo svolgimento, ha raccolto indicazioni da parte di tutta la Chiesa universale. Molti hanno denunciato come nel mondo educativo e pastorale esistono delle buone strutture, ben organizzate e ben condotte, ma non sempre arricchite da un clima relazionale adeguato in grado di rendere affascinante e fruttuosa l’esperienza che i giovani stanno facendo. Così si esprimeva un passaggio dell’Instrumentum laboris in proposito:

Per accompagnare i giovani nel loro discernimento vocazionale non servono solo persone competenti, ma anche strutture adeguate di animazione non solo efficienti ed efficaci, ma soprattutto attrattive e luminose per lo stile relazionale e le dinamiche fraterne che generano. Alcune Conferenze Episcopali sentono il bisogno di una “conversione istituzionale”. Rispettando e integrando le nostre legittime differenze, riconosciamo nella comunione la via privilegiata per la missione, senza la quale è impossibile sia educare che evangelizzare. Diventa sempre più importante quindi verificare, come Chiesa, non solo “che cosa” stiamo facendo per e con i giovani, ma anche “in che modo” lo stiamo facendo[2].

Che cosa significa questo bisogno di una “conversione istituzionale”? Probabilmente dietro c’è l’esigenza di riconoscere che le strutture devono avere un’anima per essere al servizio delle relazioni e orientate alla comunione. Quest’ultima è qui riconosciuta come la condizione fondamentale e la base sicura per poter realizzare in maniera efficace la missione educativa ed evangelizzatrice con e per i giovani.
Diciamocelo con sincerità: a volte siamo dei professionisti dei contenuti (il “che cosa” stiamo facendo), ma siamo molto poco interessati allo stile complessivo con cui stiamo agendo (cioè “in che modo” lo stiamo facendo). In pastorale ci diamo degli obiettivi che per essere raggiunti talvolta non guardano in faccia a niente e a nessuno, rischiando di calpestare le persone, le relazioni e le comunità: non lo diciamo in teoria, ma in pratica sembra che in alcuni nostri ambienti ecclesiali in fondo “i fini giustificano i mezzi”.
Detto in maniera più diretta: metodo e contenuto del Vangelo vanno insieme. Non si tratta solo fare attività evangeliche, ma di farle secondo lo stile del Vangelo. Tale connessione non ci viene sempre naturale.
Pensiamo, per fare un esempio macroscopico e sotto gli occhi di tutti, alla gestione dell’autorità nella Chiesa. Sappiamo tutti che l’autorità è un servizio dedicato e perfino consacrato alla crescita di altri e che Gesù insegna ai suoi discepoli che non devono pensare all’autorità e al potere secondo una logica mondana:

Egli disse: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve”[3].

Ma sappiamo che è altrettanto facile – gli esempi sarebbero purtroppo innumerevoli – esercitare il potere secondo i modelli di leadership imperanti nel mondo, che sono chiaramente legati a forme dispotiche e autoreferenziali di esercizio dell’autorità che non fanno altro che rendere possibili una serie di abusi di potere, amministrativi, spirituali e sessuali[4].

Ricordo con molta chiarezza, a questo proposito, alcuni interventi dei Padri sinodali che in fase di discussione chiesero esplicitamente di eliminare i termini “leader” e “leadership” dal Documento finale, sostituendole con “servizio dell’autorità”: tutto ciò per evitare possibili confusioni tra il modo di esercitare il potere e l’autorità nella Chiesa e quello che vediamo quotidianamente in molti leader politici, amministrativi e aziendali.

Un deciso rilancio

La discussione dei Padri sinodali al Sinodo sui giovani ci ha restituito in positivo alcuni passaggi e proposte di grande rilievo sulla necessità di ritrovare il primato delle relazioni – ovvero della vita fraterna di una comunità cristiana – rispetto alla doverosa valorizzazione delle strutture. Si tratta di cogliere le priorità rispetto a una polarità necessaria, che non va sciolta, ma ben compresa, integrata e attuata.
Nella terza parte del Documento finale, che raccoglie le proposte del rinnovamento, vengono offerti alcuni elementi per camminare insieme nel quotidiano. Il punto che ci interessa è esattamente intitolato “Dalle strutture alle relazioni” e così afferma in uno dei suoi paragrafi più pregnanti:

La sinodalità missionaria non riguarda soltanto la Chiesa a livello universale. L’esigenza di camminare insieme, dando una reale testimonianza di fraternità in una vita comunitaria rinnovata e più evidente, concerne anzitutto le singole comunità. Occorre dunque risvegliare in ogni realtà locale la consapevolezza che siamo popolo di Dio, responsabile di incarnare il Vangelo nei diversi contesti e all’interno di tutte le situazioni quotidiane. Ciò comporta di uscire dalla logica della delega che tanto condiziona l’azione pastorale.
Possiamo riferirci per esempio ai percorsi di catechesi in preparazione ai sacramenti, che costituiscono un compito che molte famiglie demandano del tutto alla parrocchia. Questa mentalità ha come conseguenza che i ragazzi rischiano di intendere la fede non come una realtà che illumina la vita quotidiana, ma come un insieme di nozioni e regole che appartengono a un ambito separato dalla loro esistenza. È necessario invece camminare insieme: la parrocchia ha bisogno della famiglia per far sperimentare ai giovani il realismo quotidiano della fede; la famiglia viceversa ha bisogno del ministero dei catechisti e della struttura parrocchiale per offrire ai figli una visione più organica del cristianesimo, per introdurli nella comunità e aprirli ad orizzonti più ampi. Non basta dunque avere delle strutture, se in esse non si sviluppano relazioni autentiche; è la qualità di tali relazioni, infatti, che evangelizza[5].

Le strutture e i percorsi non bastano: sono strade che vanno abitate da relazioni, ovvero da legami e affetti condivisi che ci rendono comunità, famiglia, casa. Attestare che è la qualità delle relazioni che evangelizza significa proporre un modo di essere Chiesa che rimanda alla familiarità tanto signorile quanto feriale che Gesù ha intrattenuto con i suoi discepoli e con tutti coloro che ha incontrato sul suo cammino.
Le strutture sono un servizio e una possibilità per far maturare relazioni e generare così comunità autentiche. Per questo esser vanno continuamente verificate e rinnovate. Secondo il Sinodo sui giovani dovrebbero essere “aperte e decifrabili”:

Nella stessa direzione di una maggiore apertura e condivisione è importante che le singole comunità si interroghino per verificare se gli stili di vita e l’uso delle strutture trasmettono ai giovani una testimonianza leggibile del Vangelo. La vita privata di molti sacerdoti, suore, religiosi, vescovi è senza dubbio sobria e impegnata per la gente; ma è quasi invisibile ai più, soprattutto ai giovani. Molti di loro trovano che il nostro mondo ecclesiale è complesso da decifrare; sono trattenuti a distanza dai ruoli che rivestiamo e dagli stereotipi che li accompagnano. Facciamo in modo che la nostra vita ordinaria, in tutte le sue espressioni, sia più accessibile. La vicinanza effettiva, la condivisione di spazi e di attività creano le condizioni per una comunicazione autentica, libera da pregiudizi. È in questo modo che Gesù ha portato l’annuncio del Regno ed è su questa via che ci spinge anche oggi il suo Spirito[6].

Un obiettivo chiaro

C’è una parola che connette molto bene la necessità di una struttura e il calore di una relazione: si tratta della parola “casa”. Tanto piccola quanto evocativa di un modo di essere Chiesa. I giovani stessi hanno più volte sognato e immaginato la Chiesa come di una casa accogliente per tutti. D’altra parte solo una pastorale capace di rinnovarsi a partire dalla cura delle relazioni e dalla qualità della comunità cristiana sarà significativa e attraente per i giovani. La Chiesa potrà così presentarsi a loro come una casa che accoglie, caratterizzata da un clima di famiglia fatto di fiducia e confidenza. L’anelito alla fraternità, tante volte emerso dall’ascolto sinodale dei giovani, chiede alla Chiesa di essere “madre per tutti e casa per molti”: la pastorale ha il compito di realizzare nella storia la maternità universale della Chiesa attraverso gesti concreti e profetici di accoglienza gioiosa e quotidiana che ne fanno una casa per i giovani[7].

Riprendendo e portando a compimento le diverse riflessioni a proposito del legame necessario tra strutture e relazioni, papa Francesco ha esattamente insistito su questo punto, che trova nell’impegno di tutti a “fare casa” la sua mirabile sintesi unitaria e propositiva:

Fare “casa” in definitiva è fare famiglia; è imparare a sentirsi uniti agli altri al di là di vincoli utilitaristici o funzionali, uniti in modo da sentire la vita un po’ più umana. Creare casa è permettere che la profezia prenda corpo e renda le nostre ore e i nostri giorni meno inospitali, meno indifferenti e anonimi. È creare legami che si costruiscono con gesti semplici, quotidiani e che tutti possiamo compiere. Una casa, lo sappiamo tutti molto bene, ha bisogno della collaborazione di tutti. Nessuno può essere indifferente o estraneo, perché ognuno è una pietra necessaria alla sua costruzione. Questo implica il chiedere al Signore che ci dia la grazia di imparare ad aver pazienza, di imparare a perdonarci; imparare ogni giorno a ricominciare. E quante volte perdonare e ricominciare? Settanta volte sette, tutte quelle che sono necessarie. Creare relazioni forti esige la fiducia che si alimenta ogni giorno di pazienza e di perdono. E così si attua il miracolo di sperimentare che qui si nasce di nuovo; qui tutti nasciamo di nuovo perché sentiamo efficace la carezza di Dio che ci rende possibile sognare il mondo più umano e, perciò, più divino[8].

Solo quando la Chiesa assume il volto fraterno e familiare di una “casa” può essere attrattiva, luminosa e desiderabile per tutti i giovani oggi. Essi, ci dicono molte ricerche sul mondo giovanile, vivono una vera e propria “orfanità” e per questo sono alla ricerca di persone e ambienti in grado di adottarli come loro figli. E proprio noi, figli di un Dio tanto vicino, tenero e misericordioso che ci ha adottati come figlio suoi, siamo chiamati a diventare adottivi verso tutti i giovani, nessuno escluso.

NOTE

[1] Le prime quattro tappe sono reperibili negli editoriali del 2025: Cfr. R. Sala, Respirare a due polmoni. L’importanza dell’ascolto e i dinamismi del discernimento, in «Note di pastorale giovanile» 1 (2025) 2-6; Id., Accompagnamento e annuncio. Uno stile ecclesiale per una necessità epocale, in «Note di pastorale giovanile» 2 (2025) 2-6; Id. Vocazione e missione. Il focus qualificante della proposta del Sinodo sui giovani, «Note di pastorale giovanile» 3 (2025) 2-6; Id., Affiliazione religiosa e ricerca spirituale. Un trend che spinge la pastorale giovanile a rinnovarsi, in «Note di pastorale giovanile» 5 (2025) 2-6.[2] XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Instrumentum laboris, 8 maggio 2017, n. 198.[3] Lc 22,25-27.[4] A questo proposito consiglio vivamente la lettura del testo di D. De Lassus, Schiacciare l’anima. Gli abusi spirituali nella vita religiosa, EDB, Bologna 2021.[5] XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Documento finale, 28 ottobre 2018, n. 128.[6] Ivi, n. 130.[7] Ivi, n. 138.[8] Francesco, Esortazione apostolica postsinodale Christus vivit, 25 marzo 2019, n. 217.

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