Di Oreste Aime
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“La poésie ne s’impose plus, elle s’expose”, scriveva Paul Celan nel 1970, poco prima della sua morte. Forse un giorno si dovrà dire così anche della teologia, per quanto l’impresa sia difficile e possibile solo al limite. Dal cambio d’epoca in cui viviamo la teologia non può uscirne indenne; le sue strutture fondanti e accademiche sono legate alla modernità occidentale ed europea che è sulla via del tramonto. Sarà il tempo a indirizzare la trasformazione, inevitabile rispetto al suo essere e alle sue funzioni. Se il mondo è in metamorfosi, non può non esserlo anche la teologia. Il connubio con l’istanza “scientifica” senza essere smentita non sarà più l’unica – e non sarà una transizione indolore.
Per andare in questa nuova direzione non si parte dal nulla. Qualcosa ci viene incontro nei testi biblici fondanti a motivo della pluralità dei loro generi letterari. Ma non solo. L’abbiamo avvertito nelle lettere di Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer, non a caso il “testo teologico” più diffuso del Novecento, quasi un equivalente ai Pensieri di Blaise Pascal. Grazie a questi e altri indizi, ne possiamo coltivare il desiderio o la nostalgia, quando qualche eco o motivo possiamo ascoltare qua e là. Sono “parole” (teo-logia) che attraversano il tempo, hanno creato e creano kairos persino in tempi bui, toccano l’esistenza. Per riprendere la suggestione di Celan, non solo qualcosa si espone a noi, ma noi restiamo esposti a quelle parole, a quegli eventi, a quelle testimonianze.
Il risultato non è certamente di questo auspicabile livello ma non manca l’ispirazione o almeno l’istanza, così verrebbe da dire alla lettura di Il pomeriggio del cristianesimo di Tomáš Halík. I suoi libri precedenti, alcuni tradotti in italiano, possono essere catalogati nel settore della spiritualità e hanno raccolto molto consenso (e premi prestigiosi: Templeton, Guardini, Comenio); in questo ultimo scritto non cambia il tenore ma il genere si dilata ad un’esigenza teologica più ampia e articolata. È un tentativo di leggere il nostro tempo e discernere il kairos, con l’intento di far affiorare la dimensione esistenziale della fede e della teologia. Halík lo denomina public theology in quanto vuole programmaticamente entrare in dialogo aperto e critico con la cultura attuale (riprendendo suggestioni di Paul Tillich), attingere alle istanze della psicologia del profondo (un certo Carl G. Jung e altri), dialogare con la filosofia postmetafisica di Richard Kearney (anateismo), mantenere un rapporto costante con l’arte e i suoi linguaggi (si veda il cap. XIV), accompagnare e motivare la riforma della chiesa.
Dal risultato complessivo si possono ricavare due linee di fondo: Halík propone, attraverso l’immagine del pomeriggio del cristianesimo, un tentativo di cairologia, termine da lui coniato per indicare la lettura teologica del nostro tempo umano ed ecclesiale; è un esigenza indispensabile per proseguire un progetto di riforma che renda possibile il cristianesimo di domani così caratterizzato: “La comunità di una nuova ermeneutica, di una nuova lettura, di una nuova e più profonda interpretazione tanto delle due fonti della rivelazione divina – la Scrittura e la Tradizione – quanto della parola di Dio nei segni dei tempi” (p. 80).
Dentro questo quadro, che si dilata a una teologia della storia, talvolta un po’ affastellata, Halík propone sintetici capitoli di teologia. Innanzitutto una teologia fondamentale di tipo processuale, che include strutturalmente nella definizione classica (fides quae, fides qua) la dimensione esistenziale della fede con le sue vicissitudini, le sue dinamiche, le sue connessioni. “La teologia cui faccio riferimento è una fenomenologia della rivelazione di sé di Dio negli atti di fede, accompagnati da amore e speranza” (p. 33); la fede non tanto atto quanto “un processo dinamico che dura una vita” (p. 180). Altri capitoli abbozzano tentativi di riformulazione della cristologia (cap. XI: L’identità del cristianesimo) e dell’ecclesiologia (cap. XV: La società della Via; chiesa come popolo di Dio in pellegrinaggio, scuola di vita e di sapienza, ospedale da campo, da rimodulare istituendo centri spirituali di dialogo e condivisione).
Sono sicuramente abbozzi – e perciò discutibili e riformulabili – ma con il pregio di voler essere a diretto contatto con la vita della chiesa e degli uomini e donne di questo tempo. Solo così si potrà far fronte alla crisi vera, quella che riguarda la fede personale, “nella distanza sempre più ampia fra ciò che la chiesa professa, il modo in cui lo professa e le idee e le opinioni dei credenti” (p. 92).
Si può ora evidenziare qual è il tratto più originale di questa riflessione, soprattutto nel capitolo XIII. Che significa non solo fare teologia ma proporre la vita cristiana in un quadro storico e sociale profondamente mutato dal punto di vista religioso? Se in Europa la religione – e persino quelle sostitutive, le tante ideologie tra Ottocento e Novecento – era il collante della società fino mezzo secolo fa, ora non lo è più. La relazione sociale è guidata e comandata da altro e l’infosfera sostituisce i legami tradizionali (aspetto qui appena sfiorato). Da qualche tempo la sociologia ha individuato nella “spiritualità” qualcosa che viene a colmare in qualche misura il vuoto creatosi dal ritiro o dall’abbandono delle religioni istituzionali. Corrisponde a quello che in L’età secolare Charles Taylor ha chiamato lo “spazio aperto” jamesiano.
L’epoca moderna – “buio a mezzogiorno” – ha registrato una profonda trasformazione della religione. Dopo aver impregnato per secoli la cultura, il cristianesimo è diventato un momento della cultura tra gli altri, talora asserragliato su sé stesso. Ciò che abitualmente si è definito “secolarizzazione” è anch’esso in trasformazione con sviluppi inattesi. Rispetto ai tempi della Gaudium et spes, l’umanesimo secolare ateo non è più l’antagonista, anch’esso invecchiato e indebolito. È in aumento il numero di persone che non si riconoscono in una religione ma neppure nell’ateismo; costituiscono il popolo dei nones (di coloro che non hanno più appartenenze) e dei seekers (cercatori di spiritualità).
“La sfida principale per il cristianesimo ecclesiale di oggi è il cambiamento di rotta dalla religione alla spiritualità” (p. 191). Non si tratta di una questione secondaria; al momento la chiesa cattolica non è ancora in grado di rispondere, coinvolge tutte le chiese e lo stesso cristianesimo. La tesi di Halík è netta: “il futuro delle chiese dipende consistentemente dal modo, dal tempo e dalla misura in cui sapranno comprendere l’importanza di questa inversione, e come sapranno rispondere a questo segno dei tempi” (p. 191).
A questo proposito riprende una tesi di Boaz Huss: la spiritualità è un fenomeno autonomo, non fa parte né del campo religioso né secolare. Religione e secolarità sono fenomeni europei e cristiani di epoca moderna ma ormai superati; la “spiritualità” esprime invece il carattere del panorama spirituale contemporaneo.
Se la Gaudium et spes ha riconosciuto l’emancipazione e l’autonomia di scienza, arte, economia e politica dalla religione, ora si deve prendere atto dell’emancipazione della spiritualità dalla religione. Anzi occorre fare un ulteriore passo e rilevare che “anche la fede senza spiritualità muore” (p. 196). La spiritualità precede la riflessione intellettuale, l’espressione istituzionale, le supera in valore, le ravviva e le trasforma. “La spiritualità… è lo strumento a lungo sottovalutato della forza della religione… aggiunge alla fede la passione, la vitalità, l’attrattiva, l’ardore” (p. 202). La convalida della tesi viene così espressa: “Un elemento fondamentale della fede per come la intendo io è la spiritualità; per me è la linfa e la passione della fede, è ciò che le dà vita e continuamente la ravviva, è l’apertura stessa per la quale la grazia, la vita stessa di Dio, può scorrere nella mia fede personale” (p. 223). Non senza un’avvertenza: il fuoco può essere pericoloso.
Per accettare tutto questo è indispensabile ammettere il mutamento avvenuto e la conseguente trasformazione della missione. “Il fiume della fede è uscito dagli argini del passato, la chiesa ne ha perso il monopolio. … ha tuttavia la missione permanente di servire la fede” (p. 228).
Alcune indicazioni concrete sono formulate fin dall’inizio del volume. La contemplazione della vita può permettere il passaggio dal monologo al dialogo: nella chiesa, tra le chiese (l’ecumenismo è ormai indispensabile), con la cultura segnata dall’autonomia della spiritualità. “Credo che Dio che si è espresso nella kenosis (svuotamento) di Gesù, sia umile al punto da essere presente in modo anonimo nelle espressioni umane di apertura, desiderio e speranza, anche laddove non viene riconosciuto e chiamato, dunque – anche nella cultura secolare, purché umanamente autentica. … Nel mondo umano fede, speranza e amore prendono corpo nella cultura: sono il luogo in cui avviene la perichoresis, la reciproca compenetrazione di divino e umano” (pp. 44, 46). Vi rientrano persino l’assurdo e il blasfemo – esperienza dell’assenza di Dio, dell’incomprensibilità del mondo e del destino tragico dell’uomo e al tempo stesso motivo di attesa e di desiderio ardente di Dio.
Quelle di Halík sono ipotesi, tesi, proposte da vagliare, discutere e approfondire – in una forma corale che deve trovare nuove vie di espressione e di comunicazione. Tale ricerca può contribuire al cambiamento auspicato, “un’autotrascendenza del cristianesimo”, una necessità interna e contestuale.
Lo spunto iniziale per questa recensione veniva da Celan. Anche la conclusione ci viene da lui suggerita, per quanto le metafore siano quasi di segno opposto a quelle proposte da Halík. “Si lasci alla poesia il suo buio; forse – forse! – essa produrrà, quando quel bagliore, che già oggi le scienze esatte sanno mettere davanti agli occhi, avranno mutato radicalmente il genotipo umano – forse essa produrrà proprio per tale ragione l’ombra in cui l’uomo si ricorderà del suo essere uomo” (appunto del 1959, in P. Celan, Microliti, Mondadori, Milano 2020, p. 91). Dalla poesia alla fede (e alla teologia) il passo è lungo ma anche breve.