Dalla rubrica online di NPG “Incandescenti – L’umanità bruciante dei giganti della fede”.
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C’è un’immagine potente per descrivere Davide, ed è quella di un cuore in frantumi. Non un cuore spezzato, come quello di un amante deluso, ma un cuore letteralmente fatto a pezzi, frammentato da forze opposte e violentissime: la melodia più dolce e l’urlo di guerra, l’amicizia più pura e l’inganno mortale, la fede di un ragazzo e la lussuria di un sovrano, l’abbandono estatico in Dio e la disperazione di un padre tradito.
La grandezza di Davide, ciò che lo rende nostro contemporaneo e capace di parlare alla nostra vita frammentata, non è la coerenza di un santo scolpito nel marmo. La sua grandezza è quella di un uomo che ha tenuto insieme, per tutta la vita, i cocci incandescenti del proprio cuore, senza mai smettere di offrirli a Dio. La sua storia non è la favola di un’ascesa inarrestabile, ma il dramma realistico di un uomo che impara a pregare, ad amare e a governare proprio a partire dalle sue crepe.
Il cuore di un ragazzo: Vedere oltre le apparenze
La storia di Davide non inizia sul trono, ma nell’anonimato. Inizia con l’odore aspro delle pecore, con le mani ruvide di un pastore e con la sensazione, così familiare a tanti giovani, di essere l’ultimo, quello dimenticato. Quando il profeta Samuele arriva a Betlemme per ungere il futuro re d’Israele, il padre di Davide, Iesse, gli presenta tutti i suoi figli. I belli, i forti, quelli che sembrano re nati. E Davide? Davide non c’è. È fuori, al pascolo. Non è stato nemmeno chiamato. È l’eterna esperienza di non essere presi in considerazione, di sentirsi invisibili mentre gli altri sfilano sul palco della vita.
Ma Dio, dice la Bibbia, non guarda ciò che guarda l’uomo. «L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore». In questa frase c’è la prima rivoluzione che Davide porta nella nostra vita. In un mondo, allora come oggi, ossessionato dall’immagine, dalla performance, dal curriculum, Dio cerca qualcos’altro. Cerca un “cuore”. E il cuore di quel ragazzo, apparentemente insignificante, è un cuore vivo. È un cuore che sa suonare l’arpa, che sa comporre musiche per calmare l’inquietudine. È un cuore che sa usare la fionda non come uno strumento di violenza, ma di difesa. È un cuore abituato alla solitudine dei pascoli, una solitudine che non è vuoto, ma spazio per l’ascolto, per il silenzio, per la relazione con il
Mistero che abita la natura
Quando Samuele lo unge con l’olio, non lo trasforma magicamente in un re. Piuttosto, gli rivela ciò che già è. Gli dice: “Tu, proprio tu, con il tuo cuore di musicista e di pastore, sei la persona che stavo cercando”. È un messaggio di una potenza incredibile per chiunque si senta “fuori posto”: la tua vera identità, il tuo valore più grande, non risiede in ciò che gli altri vedono o si aspettano da te, ma in quella scintilla unica che Dio ha messo nel tuo cuore.
Questa scintilla esplode di fronte a Golia. La scena è arcinota, ma dobbiamo spogliarla della sua patina fiabesca. Non è la storia del piccolo che batte il grande per magia. È la storia di due sguardi diversi sul mondo. L’esercito di Israele, incluso il re Saul, vede un gigante, un’armatura invincibile, una minaccia mortale. Vede l’apparenza e ne è paralizzato. Davide vede qualcos’altro. Vede un uomo che sta insultando il suo popolo e il suo Dio. La sua non è presunzione, ma una fede che cambia la prospettiva. Non dice: “Sono abbastanza forte per batterlo”. Dice: “Dio è abbastanza grande da non essere offeso da quest’uomo”.
E quando Saul cerca di vestirlo con la sua armatura – pesante, inadatta, non sua – Davide la rifiuta. È un altro gesto di una modernità sconcertante. Davide ci dice: non puoi affrontare le sfide della vita con gli strumenti di qualcun altro. Non puoi indossare le armature che il mondo ti vuole imporre. Devi usare ciò che sei. Devi prendere i tuoi “cinque sassi lisci”, le tue passioni, i tuoi talenti unici, anche quelli che sembrano insignificanti, e con quelli combattere la tua battaglia. La vittoria di Davide non è la vittoria della debolezza sulla forza, ma dell’autenticità sull’apparenza.
Il cuore dell’amico, dell’amante, del re: Il desiderio e la sua ombra
La vita adulta di Davide si apre all’insegna di una delle più belle storie di amicizia di tutta la letteratura mondiale: quella con Gionata, il figlio del re Saul. Non è una semplice alleanza politica. La Bibbia usa un’espressione fortissima: «L’anima di Gionata si legò all’anima di Davide, e Gionata lo amò come se stesso». È l’esperienza di un’amicizia elettiva, di un incontro di anime che si riconoscono e si scelgono al di là di ogni convenienza. Gionata, che sarebbe l’erede al trono, riconosce in Davide il prescelto da Dio e, invece di vederlo come un rivale, lo protegge, lo ama e stringe con lui un patto.
Questa amicizia è la testimonianza della capacità di Davide di amare e di essere amato in modo profondo. Ci parla della necessità, per ogni giovane, di trovare relazioni autentiche, patti dell’anima che non si basano sull’utilità ma sulla gratuità, sull’ammirazione reciproca e sul volere il bene dell’altro più del proprio.
Ma il cuore di Davide è un abisso di desiderio, e il desiderio è un’energia potente che può creare e distruggere. Finché Davide è un fuggiasco, perseguitato da Saul, questa energia è incanalata nella sopravvivenza, nella leadership, nella costruzione di un consenso. Ma quando arriva al potere, quando siede sul trono, sicuro e acclamato, accade qualcosa. La crepa nel suo cuore si allarga.
È un pomeriggio pigro a Gerusalemme. Il re, invece di essere in guerra con i suoi soldati, è rimasto a palazzo. L’ozio, si sa, è il padre di molti vizi. Dalla terrazza, il suo sguardo cade su una donna bellissima che fa il bagno. Betsabea. In quel momento, Davide non è più il pastore che guarda il cuore, ma l’uomo che si ferma all’apparenza. E il desiderio, che potrebbe essere energia per la vita, diventa brama di possesso.
Ciò che segue è un manuale su come il peccato non sia mai un singolo atto isolato, ma una valanga che inizia con un piccolo sasso. Davide non si limita a guardare. Chiede chi sia. E quando scopre che è la moglie di Uria, un suo soldato fedelissimo che sta combattendo per lui, non si ferma. La fa venire a palazzo. Abusa del suo potere. La mette incinta. E poi, per coprire il suo errore, la sua paura, la sua vergogna, scivola sempre più in basso. Cerca di ingannare Uria, di farlo passare per il padre del bambino. E di fronte alla lealtà incorruttibile di quel soldato, che si rifiuta di andare a casa propria mentre i suoi compagni sono in battaglia, Davide prende la decisione più terribile: lo manda a morire, mettendolo in prima linea nel punto più pericoloso dello scontro.
L’adulterio è diventato omicidio. Il re poeta, il pastore secondo il cuore di Dio, è diventato un assassino freddo e calcolatore. È il punto più buio. Davide ha tradito tutto: l’amicizia (Uria era uno dei suoi prodi), l’amore, la giustizia, il suo ruolo di re e, soprattutto, ha tradito se stesso e il suo Dio. Qui la narrazione biblica è spietata, non fa sconti, non cerca scuse. Ci mostra la terribile capacità dell’essere umano di autodistruggersi, di usare i doni più grandi – il potere, l’amore – per creare morte.
E per un po’, sembra che Davide l’abbia fatta franca. La vita a corte continua. Betsabea diventa sua moglie. Ma qualcosa si è rotto. Il silenzio di Dio, in questa fase, è più assordante di qualsiasi tuono. Finché un giorno, un altro profeta, Natan, si presenta a lui.
Il cuore che grida: La forza di dire “ho peccato”
Natan non accusa direttamente il re. Sarebbe stato troppo facile per Davide negare o giustificarsi. Il profeta, con una finezza psicologica magistrale, gli racconta una storia. La storia di un uomo ricco, con tante pecore, che per preparare una cena a un ospite ruba l’unica, amatissima pecorella di un uomo povero.
Il senso di giustizia di Davide, il cuore del pastore che conosce il valore di ogni singola pecora, si infiamma. Dichiara che quell’uomo ricco merita la morte. È in quel momento che Natan punta il dito e pronuncia la frase che fa crollare tutto il castello di menzogne: «Quell’uomo sei tu!».
È una scena di una potenza teatrale immensa. Davide viene messo di fronte alla verità non da un’accusa esterna, ma dal suo stesso giudizio. È costretto a guardare l’abisso che ha scavato. E qui, in questo momento, si gioca tutta la sua grandezza. Avrebbe potuto far giustiziare Natan. Avrebbe potuto negare. Avrebbe potuto minimizzare. Invece, crolla. E pronuncia solo due parole, in ebraico: chatà’ti L-Adonai. «Ho peccato contro il Signore».
In queste due parole c’è il punto di svolta. È il riconoscimento della verità. È l’ammissione di aver frantumato non solo una legge, ma una relazione. Il pentimento di Davide non è un semplice “chiedo scusa”. È un grido che sgorga da un cuore che finalmente si è rotto del tutto. E da questo cuore in frantumi nasce uno dei testi più belli e potenti di tutta la Bibbia: il Salmo 51, il Miserere.
«Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro». Davide non chiede di essere perdonato e basta. Chiede di essere rifatto. «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo». È la preghiera di chi sa di non potersi salvare da solo. È la consapevolezza che solo Dio può prendere i cocci del suo cuore e ricomporli in qualcosa di nuovo e di bello.
Questo è ciò che rende Davide un uomo “secondo il cuore di Dio”. Non perché non abbia peccato, ma perché, dopo aver peccato, ha avuto il coraggio di mostrare a Dio il suo cuore devastato, senza nascondere nulla, desiderando più di ogni altra cosa di ripristinare quella relazione.
Il perdono di Dio arriva, ma le conseguenze del peccato restano. Il bambino nato da Betsabea muore. La famiglia di Davide sarà devastata dalla violenza, dall’incesto e dalla ribellione, culminata nella tragedia di suo figlio Assalonne, che lui amava disperatamente e che morirà in una guerra civile contro di lui. Davide impara a sue spese che le scelte hanno un peso, che il male genera altro male. E la sua vecchiaia sarà quella di un padre addolorato e di un re che ha conosciuto l’amarezza del tradimento.
Uno specchio per il nostro cuore
Cosa dice, allora, Davide a un giovane di oggi?
Dice che la tua vita non sarà mai una linea retta. Sarà un groviglio di desideri, talenti, errori, cadute e risalite. Dice che dentro di te convivono un Golia da affrontare e una Betsabea che ti può tentare. C’è un musicista capace di elevare lo spirito e un re che può abusare del suo potere. Non devi spaventarti di questa complessità. È la stoffa di cui è fatta l’umanità.
Davide ci insegna che il più grande tranello non è cadere, ma pretendere di essere perfetti, costruire un’immagine di sé impeccabile e nascondere le proprie crepe dietro un’armatura che non è la nostra. Ci sfida a essere autentici, a combattere con i nostri “cinque sassi”, non con le armi degli altri.
Soprattutto, la sua storia è un Vangelo del pentimento. Ci mostra che il punto non è non commettere errori, ma cosa ne facciamo dei nostri errori. Li nascondiamo, li giustifichiamo, accusiamo gli altri? Oppure abbiamo il coraggio disarmato di dire “ho peccato”, di guardare in faccia la nostra ombra e di gridare a Dio dal nostro abisso?
Davide è lo specchio in cui possiamo guardare il nostro cuore a pezzi, con le sue contraddizioni e i suoi desideri, e scoprire che proprio quel cuore, offerto con sincerità, è il luogo che Dio preferisce. È l’invito a non disperare mai della possibilità di essere “rifatti”, di ricevere un cuore nuovo, un cuore ricomposto dalla misericordia di un Dio che, instancabilmente, continua a cercare il nostro.
La domanda che Davide ci lascia non è: “Sarai mai perfetto?”. Ma: “Avrai il coraggio di essere vero?”.