Dall’introduzione al nuovo numero di NPG, di don Rossano Sala.
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Continuiamo a percorrere il solco segnato dal cammino sinodale vissuto con i giovani dal 2016 al 2019 per riscoprirne i dinamismi virtuosi e le prospettive generative. Abbiamo parlato prima dell’ascolto e del discernimento[1] e, nell’editoriale precedente, dell’accompagnamento e dell’annuncio[2]. Passiamo ora ad una coppia centrale di termini per la pastorale giovanile: vocazione e missione. Entrambe ci spingono a qualificare e impegnare la nostra azione, chiedendo ai giovani di mettersi in gioco con la loro esistenza.
È evidente che una pastorale giovanile che desideri avere un autentico spessore cristiano debba confrontarsi sull’orientamento e la destinazione della propria vita e anche sul modo concreto di esprimerla. In questo senso il tema vocazionale è assolutamente strategico per qualificare la pastorale giovanile in forma missionaria.
La cosa interessante – ed è questo il motivo per cui questi due termini vengono trattati insieme – sta nel fatto che il Sinodo sui giovani ha voluto connettere vocazione e missione in forma chiara e inequivocabile. Da una parte possiamo dire che non esiste una vocazione che viene da Dio e che allontani dal prossimo e dal mondo, quindi la vocazione è sempre una chiamata ad uscire per andare incontro agli altri e mai una spinta ad una relazione chiusa tra il credente e il Dio che chiama. Dall’altra parte la missione è il campo concreto in cui il discernimento vocazionale prende corpo, perché è proprio la partecipazione attiva alla missione della Chiesa il contesto specifico a cui rispondere alla domanda vocazionale per eccellenza: “Per chi sono io?”.
Pastorale giovanile “in chiave vocazionale”
Il Sinodo nel suo insieme ha voluto passare da una pastorale giovanile dell’intrattenimento ad una pastorale giovanile in chiave vocazionale. Nella fase preparatoria i riferimenti in questa direzione sono stati molteplici: solo per citare i passaggi centrali, possiamo fare riferimento al secondo capitolo della seconda parte sia dell’Instrumentum laboris[3] che del Documento finale[4], entrambi dedicati al tema vocazionale. L’argomento è strategico e fondamentale, dal punto di vista teorico come da quello pratico: pensare la vocazione come l’espressione personalizzante della vita di fede di ogni battezzato mette in moto tutta una serie di conseguenze di grande portata.
La sfida pastorale più grande sollevata dall’Instrumentum laboris era legata al ripensamento della questione vocazionale nel suo insieme. Una delle grandi debolezze della nostra pastorale risiede nel pensare la “vocazione” secondo una visione riduttiva, che riguarderebbe solo le vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata. Su questo aspetto c’è un lavoro enorme da fare, perché si tratta di modificare una visione molto radicata nell’immaginario ecclesiale e civile, e quindi anche in quello giovanile.
Interpretare l’esistenza umana, ogni esistenza umana, nell’orizzonte vocazionale è compito tanto necessario quanto faticoso nel nostro tempo, perché siamo chiusi tra l’incudine di una visione ecclesiale ristretta – dove “vocazione” è brutalmente sinonimo di prete o suora – e il martello di una visione culturale moderna – dove la vita è pensata nell’ottica del self-made man, così che ciascuno si sente padrone indiscutibile del proprio sé e non deve rendere conto a nessuno della propria libertà, scegliendo e progettandosi nella logica dell’auto-realizzazione. E quindi tendenzialmente al di fuori di ogni dinamica vocazionale, che invece fa chiaramente riferimento alla necessità dell’ascolto, pensa nell’ottica dell’alleanza d’amore, e comprende la vita umana in vista di una responsabilità verso altri.
Alcuni passaggi dell’Instrumentum laboris sono stati decisivi per porre la questione nel modo corretto: i numeri che vanno dall’87 al 90 rendono conto con precisione che «solo un’antropologia vocazionale sembra essere adeguata per comprendere l’umano in tutta la sua verità e pienezza»[5] e che questa prospettiva dovrebbe orientare l’esistenza dei giovani[6]. Se già si chiedeva di vedere il servizio vocazionale come «l’anima di tutta l’evangelizzazione e di tutta la pastorale della Chiesa»[7], veniva poi chiarito che la questione riguardante l’identità e l’unità della persona poteva avere solo una risposta vocazionale. Infatti la vocazione
non è mai un principio di alienazione, ma piuttosto un fulcro di integrazione di tutte le dimensioni della persona, che le renderà feconde: dai talenti naturali al carattere con le sue risorse e i suoi limiti, dalle passioni più profonde alle competenze acquisite attraverso lo studio, dalle esperienze di successo ai fallimenti che ogni storia personale contiene, dalla capacità di entrare in relazione e di amare fino a quella di assumere il proprio ruolo con responsabilità all’interno di un popolo e di una società[8].
Il Documento finale, facendo eco alle domande e alle riflessioni contenute nell’Instrumentum laboris, offre alcuni orientamenti importanti per il rinnovamento della pastorale giovanile. In sintesi si chiede che la pastorale giovanile nel suo insieme sia ripensata e attuata “in chiave vocazionale”. Che cosa significa? La proposta sinodale si articola in sei intensi passaggi[9].
Si parte dall’idea della Chiesa come “casa” e si passa poi all’esigenza di animare vocazionalmente ogni aspetto della pastorale. Il cuore della proposta chiede di “qualificare vocazionalmente” la pastorale dei giovani. Conviene risentire per intero questo intenso passaggio:
Fin dall’inizio del cammino sinodale è emersa con forza la necessità di qualificare vocazionalmente la pastorale giovanile. In tal modo emergono le due caratteristiche indispensabili di una pastorale destinata alle giovani generazioni: è “giovanile”, perché i suoi destinatari si trovano in quella singolare e irripetibile età della vita che è la giovinezza; è “vocazionale”, perché la giovinezza è la stagione privilegiata delle scelte di vita e della risposta alla chiamata di Dio. La “vocazionalità” della pastorale giovanile non va intesa in modo esclusivo, ma intensivo. Dio chiama a tutte le età della vita – dal grembo materno fino alla vecchiaia –, ma la giovinezza è il momento privilegiato dell’ascolto, della disponibilità e dell’accoglienza della volontà di Dio.
Il Sinodo avanza la proposta che a livello di Conferenza Episcopale Nazionale si predisponga un “Direttorio di pastorale giovanile” in chiave vocazionale che possa aiutare i responsabili diocesani e gli operatori locali a qualificare la loro formazione e azione con e per i giovani[10].
Il testo è oltremodo chiaro e anche molto citato. Purtroppo però quasi nessuna Conferenza Episcopale Nazionale lo ha preso sul serio, rispondendo con la presa in carico di un “Direttorio” orientato ad individuare orientamenti e suggerimenti per realizzare una “pastorale giovanile in chiave vocazionale” nel proprio contesto.
Identità vocazionale “in chiave missionaria”
Arriviamo ora al capitolo VIII della Christus vivit, quello dedicato al tema vocazionale. È interessante per noi la struttura di questo capitolo, che è assai istruttiva per comprendere il timbro e la logica vocazionale sottesa ad ogni esistenza umana: si parte dall’amicizia, che è il modo specifico di relazione con Gesù, e si arriva alle diverse forme della chiamata: all’amore nella famiglia e al lavoro. Poi si termina tenendo la porta aperta verso le vocazioni a una speciale consacrazione. Al centro del capitolo ci si sofferma su ciò che è comune ad ogni chiamata vocazionale: Il tuo essere per gli altri[11]. Sembra essere questo il cuore generativo del capitolo.
La vocazione è sempre per il bene di altri. Dio ci chiama non per creare un gruppo di prediletti che si escludono e si isolano dal mondo, magari credendosi migliori di tutti, ma per generare inclusione attraverso il nostro «servizio missionario verso gli altri»[12]. Occorre chiarire che ogni vocazione è missione, ogni chiamata è immediatamente invio verso altri. Sembrerà strano, ma è proprio così: Dio chiama per amore dei non chiamati! Se pensiamo per esempio a don Bosco, subito possiamo domandarci: perché Dio ha chiamato don Bosco? E la risposta non può che essere: per amore dei giovani più poveri e più abbandonati. Dio chiama uno per i molti e non per se stesso, lo chiama per essere a servizio alla vita piena di coloro che non sono stati (ancora) chiamati.
Papa Francesco sviluppa con chiarezza questo pensiero in vari passaggi, facendo leva sul fatto che la nostra chiamata è sempre una “vocazione missionaria” e fa eco alla nostra identità di “discepoli missionari”:
Questa vocazione missionaria riguarda il nostro servizio agli altri. Perché la nostra vita sulla terra raggiunge la sua pienezza quando si trasforma in offerta. Ricordo che “la missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo”. Di conseguenza, dobbiamo pensare che ogni pastorale è vocazionale, ogni formazione è vocazionale e ogni spiritualità è vocazionale[13].
Va compresa in profondità questa prospettiva “estatica”: perché la missione, ovvero il mio andare fuori di me, il mio essere “in uscita”, non è una sovrastruttura dell’esistenza, ma è il cuore della mia identità. Per questo preciso motivo io non “ho” una missione, ma “sono una missione”. Anche qui c’è un paradosso entusiasmante: io sono me stesso quando esco da me stesso e abbandono la prigione del mio “io”, quando interpreto la mia identità non come un rifugio, ma come uno spazio di incontro, di dialogo e di servizio. La mia esistenza è in se stessa missionaria: non esisto per me stesso, ma per gli altri. I talenti che ricevo non mi vengono donati per l’autoconsumo, ma per l’edificazione di altri e del mondo. “Io sono una missione”, e per questo «la tua vocazione non consiste solo nelle attività che devi fare, anche se si esprime in esse. È qualcosa di più, è un percorso che orienterà molti sforzi e molte azioni verso una direzione di servizio»[14].
La dinamica vocazionale, essendo fin dall’inizio più intima a noi di noi stessi, non è una scelta opportunistica o pragmatica, ma frutto di un dialogo amichevole e amorevole con il Signore che offre un senso pieno e definitivo alle tante azioni che compiamo. Che ci offre, appunto, una missione e una destinazione perché «non si tratta solo di fare delle cose, ma di farle con un significato, con un orientamento»[15]. In questo senso la vocazione è un principio di unificazione della nostra vita, perché dona a colui che la riceve quella “grazia di unità” tanto necessaria quanto impossibile da raggiungere con i nostri sforzi:
In definitiva, si tratta di riconoscere per che cosa sono fatto, per che cosa passo da questa terra, qual è il piano del Signore per la mia vita. Egli non mi indicherà tutti i luoghi, i tempi e i dettagli, che io sceglierò con prudenza, ma certamente ci sarà un orientamento della mia vita che egli deve indicarmi perché è il mio creatore, il mio vasaio, e io ho bisogno di ascoltare la sua voce per lasciarmi plasmare e portare da lui. Allora sarò ciò che devo essere e sarò anche fedele alla mia realtà personale[16].
Papa Francesco ci dice ancora che «per realizzare la propria vocazione è necessario sviluppare, far germogliare e coltivare tutto ciò che si è. Non si tratta di inventarsi, di creare se stessi dal nulla, ma di scoprirsi alla luce di Dio e far fiorire il proprio essere»[17]. È molto feconda l’idea della vocazione come piena fioritura del nostro essere, che si concretizza nella dedizione agli altri: effettivamente «la tua vocazione ti orienta a tirare fuori il meglio di te stesso per la gloria di Dio e per il bene degli altri»[18]. Da qui si può andare verso Dio: il nostro amore per Dio, la nostra amicizia con lui, la cura della nostra vita spirituale, la partecipazione viva alla liturgia della Chiesa come luogo privilegiato dell’incontro con lui. E si può andare verso il prossimo: la famiglia, il lavoro, l’impegno sociale e politico, la dedizione ai piccoli e ai poveri.
Ciò che conta è evitare in ogni modo il veleno della “philautía”, cioè la concentrazione patologica su di sé, che è un difetto tipico del nostro tempo a tutti i livelli civili ed ecclesiali[19]. Questo vale per la Chiesa nel suo insieme, che quando agisce in tal modo non è fedele alla propria vocazione. Vale per le nostre comunità cristiane, quando lavorano per la propria sopravvivenza. E vale per ogni giovane, quando vede solo se stesso nel proprio orizzonte e lavora solo per la propria autorealizzazione narcisistica: è un giovane che in fin dei conti ha perso la sua giovinezza.
NOTE
[1] Cfr. R. Sala, Respirare a due polmoni. L’importanza dell’ascolto e i dinamismi del discernimento, in «Note di pastorale giovanile» 1 (2025) 2-6.[2] Cfr. R. Sala, Accompagnamento e annuncio. Uno stile ecclesiale per una necessità epocale, in «Note di pastorale giovanile» 2 (2025) 2-6.[3] XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Instrumentum laboris, 8 maggio 2017, nn. 85-105.[4] XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Documento finale, 28 ottobre 2018, nn. 77-90.[5] XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Instrumentum laboris, 8 maggio 2017, n. 88.[6] Ivi, nn. 89-90.[7] Ivi, n. 100.[8] Ivi, n. 143.[9] XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Documento finale, 28 ottobre 2018, nn. 138-142.[10] Ivi, n. 140.[11] Francesco, Esortazione apostolica postsinodale Christus vivit, 25 marzo 2019, nn. 253-258.[12] Ivi, n. 253.[13] Ivi, n. 254.[14] Ivi, n. 255.[15] Ivi, n. 257.[16] Ivi, n. 256.[17] Ivi, n. 257.[18] Ivi, n. 257.[19] Molto istruttivi sul tema i testi di I. Hausherr, Philautía. Dall’amore di sé alla carità, Qiqajon, Magnano (BI) 1999 e di P. Sequeri, La cruna dell’ego. Uscire dal monoteismo del sé, Vita e pensiero, Milano 2017.
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