Dalla rubrica “Pellegrini con arte” di Maria Rattà
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La speranza è parola di contraddizioni, contrasti, antitesi. Papa Francesco la definì come «la più umile delle tre virtù teologali»[1], ricorrendo a quello che sembra un vero e proprio paradosso: perché se la speranza ci chiama alle grandi e vertiginose altezze della salvezza, l’umiltà ci invita invece a rimanere coi piedi per terra, ancorati a quell’humus che il termine stesso riporta in sé.
Ma questa stridente dicotomia è in realtà fusione di grandi verità: l’essere umano non può salvarsi da solo, eppure Dio richiede una sua compartecipazione attraverso la fede e la carità, da vivere nell’ordinarietà della vita. Proprio quella che, tante volte, ci mette alla prova.
Forse per questo le immagini che meglio si adattano a parlare di speranza sono quelle del naufragio, evento drammatico che ritroviamo anche nel Nuovo Testamento come metafora potente in cui paura e fiducia, disperazione e speranza corrono su un filo sottilissimo, su un arco di violino teso e pronto a spezzarsi se rinunciamo a lottare.
Matteo ricorre all’episodio della tempesta sedata (Mt 8,23-27), in cui i discepoli si lasciano prendere dal timore di annegare mentre Gesù dorme, e perciò lo svegliano, esprimendo la propria angoscia prima di essere salvati e, anche, rimproverati per aver avuto poca fede.
Avevano dimenticato, questi amici e seguaci di Cristo, che
«Il compito di un Marinaio è la riva! / […] Chi chiede di più, / Deve cercare nell’altra vita!», mentre in questa «Un po’ di Pane – una crosta – una briciola – / Un po’ di speranza – una damigiana – / Possono tenere viva l’anima»[2].
Il naufragio è segno della nostra ancestrale e incancellabile paura di morire; è il simbolo dell’angoscia umana dinanzi alla possibilità di rimanere soli, in balia di forze oscure, incontrollabili, che possono distruggerci. Diversi sono gli artisti cimentatisi con questo soggetto: Delacroix nel suo Cristo addormentato durante la tempesta (1853 c.) immortala una scena di terrore, in cui gli apostoli hanno le braccia levate in alto e le bocche urlanti, senza riuscire a intravedere la santità di quel Gesù che dorme, beatamente, sulla loro stessa barca; Rembrandt, nel suo Cristo nella tempesta sul mare di Galilea (1633), ricorre ai propri tipici toni teatrali, con un forte gioco di luci e ombre, quasi a spezzare la scena in due parti, come se le onde stesse volessero tranciare in due la barca. Da un lato alcuni apostoli cercano di controllare la furia delle onde e del vento, e nel mentre vengono anche colpiti da un raggio di sole potente filtrato attraverso le nuvole; dall’altra parte, nel buio rossastro Gesù è stato già svegliato da altri dei dodici che ne implorano l’intervento, mentre altri ancora cercano di trattenere le corde delle vele o manifestano segni fisici di malessere per la paura e la forte tempesta in atto. Un personaggio, in cui l’artista si ritrae, ci guarda mentre porta una mano sul berretto – forse per mantenerlo fermo, forse per esprimere il proprio terrore: è il segno di come su quella barca ci siamo tutti, sballottati dalle vicende della vita che, non di rado, rischiano di farci perdere la testa.
Eppure proprio quel raggio di luce che inonda la parte della barca messa più a dura prova dalle onde ci comunica qualcosa, un messaggio positivo, di fiducia. Lo si potrebbe dire, ancora una volta, con le parole della Dickinson:
«La speranza è una strana invenzione / Un Brevetto del Cuore – / In incessante azione / Eppure mai consumata – / Di questa elettrica appendice / Non si conosce nulla / Se non che un suo unico momento / Abbellisce tutto ciò che abbiamo»[3].
Difficile o facile, dunque, sperare? Più che altro, questione di allenamento. Lo sa bene san Pietro, che pur avendo vissuto l’episodio della tempesta, si spaventerà a morte camminando sulle acque verso Gesù, come narra Mt 14,22-33.
Il principe degli apostoli potrebbe dire di sé ciò che scrive Patrizia Cavalli: «La mia disperazione è la speranza, / io spero troppo e troppo spesso spero / ma è uno sperare fatto di incostanza, / giro la testa e mi ricala il nero»[4]. Forse per questo Gustave Brion, in Gesù e Pietro sulle acque (1863), dona un senso di profondità vastissima, attraverso il gioco delle onde, al panorama acquatico in cui i protagonisti sono inseriti; in questo mare scuro, i cui confini lontani sembrano quasi una terraferma montuosa, la barca rimane distante, inghiottita dal buio. La luce che viene da Gesù inonda il volto di Pietro, che finalmente si affida al Maestro.
Esercitarsi alla speranza significa affidarsi sempre di più a Cristo. A quel punto, come sottolinea Carlo Betocchi, «certe mattine che si levano squallide su noi affaticati e ormai completamente delusi, […] ci offrono a un tratto […] l’apparizione nascente o tramontante di una stella, in cui non sappiamo che brilli, se la nostra angoscia o la nostra speranza. Non misuriamo la labilità delle speranze, non giudichiamo la punta, che vi rimane dentro, dell’angoscia. […] Lasciamo che quasi dal nucleo oscuro del nostro corpo trapeli quell’alba che ci si è infissa […] La vita continua la stessa, vacillante e tragica, i dolori e le morti sono le stesse, eppure quel seme accanito non si spegne più. Non occorre disperare, non occorre esultare, quanto custodire il seme della resurrezione»[5].
Alla fine, insomma, ciò che ci viene chiesto è semplicemente questo, sapere che gettare le proprie disperazioni in Dio è già un vincere con la speranza: «Non chiamare disperazione / la disperazione, / se non è ancora più forte» scrive sempre Betocchi, «se non è ancora a quel punto / che si spacca, / che s’apre una feritoia, / nemmeno la disperazione / è tua, cèdila / a chi è più forte di te, / attendi, accetta d’esser colmo / del tuo nulla; / scamperai da te stesso, / non saprai come, un altro sarà in te»[6].
Solo nell’affidamento totale si sperimenta che la speranza è solida, salda. Come un’àncora alla quale aggrapparsi per rimanere fermi in porto. Ce lo dice san Paolo in Eb 6,17-20, e così quest’oggetto diventa un classico nell’iconografia cristiana. Lo ritroviamo già nelle catacombe, a volte (come nella cripta della Chiesa di Santa Cecilia in Trastevere) affiancato dalle lettere Iota e Theta, le prime delle parole greche Gesù e Dio; in altri casi stilizzato in maniera da assumere anche la forma della croce, come nelle Catacombe di Domitilla. Ma è una croce dissimulata, in cui l’àncora non segue l’evoluzione di quella usata dai naviganti, ma al massimo effettua il passaggio a un’àncora cruciforme o tridentiforme, in modo da rimandare sempre alla croce, simbolo impossibile da utilizzare in epoca di persecuzioni religiose.
Col passare dei secoli, e l’avvento delle allegorie della speranza, la virtù assumerà le sembianze di una donna, inizialmente senza particolari attributi, poi spesso vestita di verde, come quella del Pollaiolo (1470), o con la classica àncora a connotarla.
Non è casuale la scelta di un colore rispetto agli altri, anche se il verde trova valenze positive prima in Oriente (già con gli antichi Egizi) e solo dopo molto tempo in Occidente, allorché per i Romani, sotto Tiberio, questa tinta perde le sue connotazioni negative ed entra a pieno titolo nella moda femminile, godendo poi anche del totale apprezzamento dell’imperatore Nerone. Nel Rinascimento diventa colore di buon auspicio per le ragazze in cerca di marito e delle donne in dolce attesa, come si nota nel Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434-1435) di Jan van Eyck, in cui la sposa, pur non essendo ancora incinta, indossa proprio un vestito verde smeraldo, simbolo di fertilità e speranza. Anche nella “moda” liturgica il verde ha un rilievo particolare: fissato come colore del tempo ordinario già da san Pio V (nel 1570), esso è rimando alla natura e alla vegetazione, al loro rinnovamento, in un’evocazione della fecondità, dell’abbondanza, del rifiorire, della forza: simbolo della speranza della venuta del Messia e della sua risurrezione quale fondamento della nostra fede. Segno, anche, dello svolgersi ordinario della vita liturgica, che poi fiorisce in modo particolare nei tempi forti, producendo frutti nelle grandi feste e solennità. Diventa così il colore della costanza e dell’ascolto perseverante nel cammino “quotidiano” della fede: di una speranza, cioè, da coltivare giorno dopo giorno.
Insomma, il verde rimanda alla nostra dimensione di pellegrini nella speranza, in cammino verso quel Paradiso che, nell’ebraico biblico è il pardes, parco o giardino ricco di vegetazione, dunque ancora pieno di verde. E in cui incontreremo, finalmente, Cristo, il legno verde (Lc 23,31) che, aprendolo alla speranza, aveva promesso al buon ladrone proprio il Regno dei Cieli. Come lui, allora, potremo dire:
«Non contavo per nessuno / E invece per questo uomo accanto a me io conto / Vorrei inginocchiarmi ai suoi piedi / Ma non posso muovermi / Sono le tre e il sole ha lasciato il cielo / L’oscurità è dovunque / Poi d’improvviso mi accorgo che non sono più inchiodato a un albero morto / Devo solo tendere le mani e qualcuno le afferra»[7].
Sarà l’abbraccio che non avrà mai fine, il compimento di ogni nostra speranza.
NOTE
[1] Francesco, Meditazione mattutina a Santa Marta, 29 ottobre 2013.[2] Emily Dickinson, Poesia J159 (1860) / F135 (1860), Sito internet Emily Dickinson, The Complete Poems, https://www.emilydickinson.it/j0151-0200.html[3] Emily Dickinson, Poesia J1392 (1877) / F1424 (1877), Sito internet Emily Dickinson, The Complete Poems, https://www.emilydickinson.it/j1351-1400.html[4] Patrizia Cavalli, La mia disperazione è la speranza, in Vita meravigliosa, 2020, Einaudi, Edizione Ebook.[5] Carlo Betocchi, La ritirata del Friuli, in Cuore di primavera, Rebellato, 1959, p. 55.[6] Carlo Betocchi, Non chiamare disperazione, in Un passo, un altro passo, Mondadori, 1967, p. 327.[7] Passione /2: il buon ladrone (Nico Guerini), Sito internet Settimana News, https://www.settimananews.it/spiritualita/passione2-buon-ladrone/